Il primo commento di sua madre
quando si schiude l’uovo è: “Dio, com’è brutto!”
Poi inizia il suo confronto con il mondo e tutti lo deridono e lo insultano, finchè la comunità delle anatre non lo caccia via, spingendolo fino a una palude dove ancora è respinto dai paperi.
Chi non ricorda il doloroso viaggio del brutto anatroccolo disprezzato da tutti quelli che incontra sul suo cammino, perché non assomiglia a nessuno di loro? Chi non conosce la triste storia del solitario reietto che anela di nostalgia e di desiderio, quando scopre nel lago delle bellissime creature bianche, inconsapevole ancora di essere uno di loro?
L’anatroccolo dovrà rimanere intrappolato nel ghiaccio e rischiare la morte, attendere che trascorra un lungo inverno di profonda solitudine e di esclusione dalla comunità delle anatre, dei paperi e degli uomini, prima di poter nuotare insieme ai suoi fratelli cigni, acquistando finalmente la consapevolezza di essere uno di loro e trovando l’affetto, il riconoscimento e l’accoglienza della sua vera famiglia. Si specchia infatti nel lago e scopre splendide ali e armoniche fattezze , comprendendo che il suo uovo era finito per sbaglio tra le anatre. E a questo punto, per la prima volta, riceve l’apprezzamento e il riconoscimento dei suoi fratelli.
La favola del brutto anatroccolo ci parla di parti vitali di noi, potenzialmente creative, ricche e bellissime, che non sono state riconosciute ed apprezzate . Forse perché si sono manifestate come tratti personali sentiti come estranei dal resto della famiglia, oppure perchè non hanno trovato spazio in un contesto troppo rigido, che non è riuscito a comprenderne la natura, o ancora perchè possono essere aspetti che spaventano proprio a causa della loro vitalità e che i genitori non hanno saputo come trattare.
Qualunque ne sia la causa, l’origine dei “brutti anatroccoli” è sempre da cercare nell’ infanzia, quando il sé del bambino si organizza per assumere una propria identità e alcune sue risorse interpretate dalle figure di riferimento come minacciose, inadeguate o disdicevoli , non vengono riconosciute sia perché non somiglianti alle proprie e sia perché non accettate come caratteristiche originali appartenenti all’altro. Quando la peculiarità di un bambino non viene compresa e valorizzata e quando questi è costretto a escludere dalla costellazione della propria identità ammessa e riconosciuta, ciò che appartiene alla sua fonte energetica profonda, egli sentirà quelle zone negate come brutte e inadeguate e più in generale sentirà se stesso monco, insufficiente, brutto e inadeguato, poiché ha perso la connessione con la propria natura autentica. Ha inizio un viaggio di grande solitudine, spesso fatto di molta sofferenza e confusione, sentimenti la cui caratteristica più dolorosa è proprio quella di non poter essere condivisi. L’”anatroccolo” si trova ora intrappolato nella morsa delle credenze che ha imparato ad avere su se stesso, alimentate da paura e sfiducia, e insieme dell’intenso desiderio di ritrovarsi, di riconnettersi a sé e a ciò che gli assomiglia.
Quando nella favola il brutto anatroccolo vede i cigni, prova la forte spinta dell’aspirazione ad essere uno di loro e il richiamo dell’appartenenza, ma non sa riconoscersi, né riconoscerli.
Per la persona che ha una storia da “brutto anatroccolo” il processo della scoperta delle parti di sè che sono state escluse, può essere molto difficile e spinoso, anche se viene aiutata e sostenuta da una psicoterapia. Inevitabilmente dovrà attraversare una fase in cui si troverà bloccata dal ghiaccio : è la fase in cui comincia a percepire l’annientamento subito, il rischio di morte delle sue parti vitali e la paralisi in cui sono state costrette per tanto tempo. Può essere un momento molto doloroso della terapia, ma importantissimo.
Soltanto attraverso questa nuova coscienza, infatti, potrà riappropriarsi di ciò che è profondamente suo e cioè della sua identità piena e completa, capace di nutrire sentimenti di riconoscimento e di apprezzamento di sé.
Quando il brutto anatroccolo si specchia nel lago e si scopre cigno, riceve finalmente anche il riconoscimento della famiglia dei cigni alla quale in realtà appartiene.
Nella sua conclusione, la favola descrive un altro significativo risvolto conseguente alla conquista della propria autentica identità: soltanto quando il brutto anatroccolo ha compiuto il suo processo di maturazione che lo ha condotto a scorgere nel lago la bellezza della sua vera natura, arriva finalmente anche il riconoscimento della “tribù di appartenenza”.
La persona che intraprende l’arduo cammino di trasformazione da brutto anatroccolo a cigno, impara che l’accoglienza e l’apprezzamento altrui arrivano soltanto un attimo dopo essersi accolti ed apprezzati e che forti sentimenti di appartenenza e condivisione reciproca, sono possibili soltanto quando il lavoro di individuazione si è compiuto.